Import/Export è una
meravigliosa e necessaria epifania di oltre due ore, un indigesto boccone il
cui gusto dolceamaro attanaglia lo spettatore sino all’ultimo fotogramma, uno specchio
rifrangente la condizione umana, dal riverbero tetro e desolante ma
terribilmente conforme alla realtà.
Ulrich Seidl, dalla lussureggiante
Croisette, avamposto del cinema d’essai, lancia nel 2007 un lucidissimo
manifesto sulla grevità delle nostre esistenze, sul nostro essere così brutti,
sporchi e cattivi, ma -al netto delle cose- sostanzialmente incolpevoli
di fronte ad un vissuto quotidiano che ci ha ormai assuefatti al brutto.
Nel
cinema del cineasta austriaco non c’è spazio per uno sguardo estatico(ed
estetizzante): i protagonisti della vicenda, ridotti appunto a mere pedine di
scambio, mercificati e depauperati nell’intimo, sono gli imbruttiti figli di un
Dio minore, incapaci di trovare la
propria nicchia nel mondo o un personale Eden dove far finalmente quadrare il
cerchio delle proprie vite, affrancandosi da mansioni umilianti e sottopagate. In
una visione della modernità dove a farla da padrone è l’inaridimento
progressivo (o la quasi totale non-esistenza) dei sentimenti, la celerità e la
vacuità dei rapporti interpersonali (sessuali prima ancora che sociali) la
scelta per dar voce e corollario filmico a questi convincimenti ricade su un
doppio sfondo: Austria e Ucraina, mai come in questi 150 minuti si
assottigliano, dando vita ad un non-luogo dove tutto è ammantato da un grigiore
imperante, sporcato e reso fatiscente. Succede
così che persino le nevi ucraine- ben lontane dal’assumere una funzione
purificatrice, magari al fine di mondare coscienze, occhi e animi di chi c’è
immerso o semplicemente ne osserva il nitore dall’altra parte dello schermo-
formano un centratissimo continuum estetico con le algide architetture
mitteleuropee.
Da questa straniante carrellata di 150 minuti pieni, in cui
lo stilisticamente asettico cinema di Seidl sprigiona invece una ragguardevole
potenza espressiva, emergono due vicende parallele: le sciagurate epopee dei
giovani Olga e Paul, le cui rotte sono
destinate a non incrociarsi, legano indissolubilmente in quell’archetipo
disperato capace di tratteggiare alla
perfezione l’attuale(e probabilmente prossima) situazione giovanile, se
rapportata alle molteplici sfaccettature del quotidiano.
Olga (Import), è una talentuosa infermiera ucraina che, osteggiata
dalle pastoie statali e materialmente impoverita da un’economia post-socialista
votata alla sperequazione sociale, decide coraggiosamente di giocarsi le sue
ultime carte. La vediamo quindi muoversi, spinta dall’amore materno per un
figlio piccolo a cui vorrebbe garantire un futuro degno di tal nome, entro i
confini di questo macromondo oscuro e avvilente, prima come impacciata
peep-girl in terra natìa, poi erogando a
Vienna le prestazioni assistenziali per la quale arde la fiamma della
vocazione. Nonostante i numerosi scogli e gli scherzi del destino(il razzismo
in ambiente ospedaliero, le invidie delle colleghe, il licenziamento repentino
come baby-sitter) minino il suo irto cammino verso una vagheggiata stabilità economica
e personale, la protagonista (Ekateryna Rak) lotta senza perdere la dolcezza, incarnando quindi un’idea di candore e purezza
interiore isolata dall’intera pellicola. Questa pervicacia si tinge però di
un’innocenza più autentica che simulata: Olga è, a tutti gli effetti, un
imperfetto ingranaggio nel grande meccanismo lavorativo, un angelo del focolare
che fa della propria naiveté una cifra stilistica (si vedano le risate
imbarazzate seguenti all’esigua performance erotica o i teneri e stralunati
dialoghi con gli anziani degenti).
Non quindi sottigliezze da manuale o calcoli machiavellici come
frecce al suo arco quanto piuttosto
tentativi in punta di piedi
d’integrazione (e forse auto accettazione) in una società consacrata più al rigetto
che all’accoglienza. Emblematica la reazione stralunata agli attacchi verbali e
fisici, sfociati poi in una zuffa carica di malcelato erotismo, della collega
infermiera, accecata dalla gelosia per le avances rivolte alla giovane da parte
dell’estroverso Andi.
Olga scopre insieme a noi un’Austria maldisposta nei
confronti di chi non si arrende di fronte ad un subordine originale, tentando
di svincolarsi da quella collocazione angusta che il fato ha confezionato associato indissolubilmente
al luogo di nascita, e s’accende qui la sottile critica: a finire sotto accusa
è il Vecchio Continente, solo all’apparenza fautore della libertà individuale(espressiva
e di transito) e dei diritti umani, chiuso a riccio invece in difesa dei
confini statali, lordato dai nazionalismi, imbolsito dall’individualismo.
Un’unità europea contraffatta, poggiante le sue basi su demarcazioni non
visibili ma ben più numerose di quelle presenti sulla cartina geografica, dove la
soluzione di continuità è spezzata e svilita in favore di una visione
particolaristica, in cui hanno ragione d’esistere perfino distinzioni regionali e
identità locali. Un’Europa che non parla una lingua universale, ma comunica non
capendosi o fingendo di non comprendersi- attraverso mille e più
imbastardimenti dialettali.
Seppur Seidl ci dedichi circa lo stesso minutaggio e anzi ci
permetta di seguire parallelamente il delinearsi di entrambi gli episodi grazie
ad un sapiente uso del montaggio, la vicenda di Paul (Export) non sembra avere
lo stesso respiro ampio né quella innata profondità, mai forzata o imposta da
didascaliche scelte registiche, che le permetterebbe di mantenersi sul livello di prima grandezza della restante
narrazione. Il ragazzo, trovandosi in un
batter d’occhio senza un impiego, una ragazza e con prospettive per nulla
rosee, decide di cavalcare questo turning point affidando le proprie speranze
al patrigno, figura patetica e abietta, sessuomane ed immatura, che lo
coinvolge in un’odissea attraverso gli angusti locali dell’est europeo con lo
scopo di esportare slot-machine.
Sarà una missione persa in partenza, economicamente
redditizia ma umanamente logorante: il rapporto tra i due, che ha la recondita caratteristica tipica di molti legami parentali
d’esistere solo in quanto tali, mostrerà la corda dopo l’aberrante trattamento
riservato ad una prostituta, mortificata dalla brutalità del più anziano.
L’umiliazione insensata della ragazza, perpetrata facendo
valere biecamente le logiche della compravendita (‘perché tanto sei stata
pagata’), farà saltare il tappo, con la decisione di abbandonare il patrigno a
confrontarsi vis-à-vis con le
personali miserie. In Paul, malgrado gli errori e la propria inettitudine, proprio come la controparte femminile, resiste inalterata la facoltà arbitraria, la volontà di non immergersi nelle torbide acque della sopraffazione del più debole, uscendone forse meno coriaceo ma umanamente incontaminato.
Stupisce come il caleidoscopio desolante allestito da Seidl
rapisca in tal modo noi fruitori e, a scapito della lunghezza e dei ‘vuoti’ che
infarciscono l’opera, si completi la visione senza avvertire cali d’attenzione
e attimi di stanca: ad emergere, per sottrazione e nella loro calibrata
freddezza stilistica, sono le scelte registiche.
Se ne esce turbati, col fiato corto e l’animo pesante; ci
risulta però impossibile smettere di sperare in un mondo migliore- consapevoli
che- solo dopo aver grattato via la patina insudiciante dalle cose e agito nei
confronti dell’esperienze come speleologi in cerca di tesori, si giunge alla
vera bellezza.
Ho visto questo film.Molto bello e duro.
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