domenica 20 aprile 2014

Import/Export (Ulrich Seidl - 2007)




Import/Export  è una meravigliosa e necessaria epifania di oltre due ore, un indigesto boccone il cui gusto dolceamaro attanaglia lo spettatore sino all’ultimo fotogramma, uno specchio rifrangente la condizione umana, dal riverbero tetro e desolante ma terribilmente conforme alla realtà.
Ulrich Seidl, dalla lussureggiante Croisette, avamposto del cinema d’essai, lancia nel 2007 un lucidissimo manifesto sulla grevità delle nostre esistenze, sul nostro essere così brutti, sporchi e cattivi, ma -al netto delle cose- sostanzialmente incolpevoli di fronte ad un vissuto quotidiano che ci ha ormai assuefatti al brutto.
Nel cinema del cineasta austriaco non c’è spazio per uno sguardo estatico(ed estetizzante): i protagonisti della vicenda, ridotti appunto a mere pedine di scambio, mercificati e depauperati nell’intimo, sono gli imbruttiti figli di un Dio minore,  incapaci di trovare la propria nicchia nel mondo o un personale Eden dove far finalmente quadrare il cerchio delle proprie vite, affrancandosi da mansioni umilianti e sottopagate.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       In una visione della modernità dove a farla da padrone è l’inaridimento progressivo (o la quasi totale non-esistenza) dei sentimenti, la celerità e la vacuità dei rapporti interpersonali (sessuali prima ancora che sociali) la scelta per dar voce e corollario filmico a questi convincimenti ricade su un doppio sfondo: Austria e Ucraina, mai come in questi 150 minuti si assottigliano, dando vita ad un non-luogo  dove tutto è ammantato da un grigiore imperante, sporcato e reso fatiscente.                    Succede così che persino le nevi ucraine- ben lontane dal’assumere una funzione purificatrice, magari al fine di mondare coscienze, occhi e animi di chi c’è immerso o semplicemente ne osserva il nitore dall’altra parte dello schermo- formano un centratissimo continuum estetico con le algide architetture mitteleuropee.

Da questa straniante carrellata di 150 minuti pieni, in cui lo stilisticamente asettico cinema di Seidl sprigiona invece una ragguardevole potenza espressiva, emergono due vicende parallele: le sciagurate epopee dei giovani  Olga e Paul, le cui rotte sono destinate a non incrociarsi, legano indissolubilmente in quell’archetipo disperato capace di  tratteggiare alla perfezione l’attuale(e probabilmente prossima) situazione giovanile, se rapportata alle molteplici sfaccettature del quotidiano.

Olga (Import), è una talentuosa infermiera ucraina che, osteggiata dalle pastoie statali e materialmente impoverita da un’economia post-socialista votata alla sperequazione sociale, decide coraggiosamente di giocarsi le sue ultime carte. La vediamo quindi muoversi, spinta dall’amore materno per un figlio piccolo a cui vorrebbe garantire un futuro degno di tal nome, entro i confini di questo macromondo oscuro e avvilente, prima come impacciata peep-girl  in terra natìa, poi erogando a Vienna le prestazioni assistenziali per la quale arde la fiamma della vocazione. Nonostante i numerosi scogli e gli scherzi del destino(il razzismo in ambiente ospedaliero, le invidie delle colleghe, il licenziamento repentino come baby-sitter) minino il suo irto cammino verso una vagheggiata stabilità economica e personale, la protagonista (Ekateryna Rak) lotta senza perdere la dolcezza, incarnando quindi un’idea di candore e purezza interiore isolata dall’intera pellicola. Questa pervicacia si tinge però di un’innocenza più autentica che simulata: Olga è, a tutti gli effetti, un imperfetto ingranaggio nel grande meccanismo lavorativo, un angelo del focolare che fa della propria naiveté una cifra stilistica (si vedano le risate imbarazzate seguenti all’esigua performance erotica o i teneri e stralunati dialoghi con gli anziani degenti).   

Non quindi sottigliezze da manuale o calcoli machiavellici come frecce al suo arco quanto piuttosto  tentativi  in punta di piedi d’integrazione (e forse auto accettazione) in una società consacrata più al rigetto che all’accoglienza. Emblematica la reazione stralunata agli attacchi verbali e fisici, sfociati poi in una zuffa carica di malcelato erotismo, della collega infermiera, accecata dalla gelosia per le avances rivolte alla giovane da parte dell’estroverso Andi.

 
 
Olga scopre insieme a noi un’Austria maldisposta nei confronti di chi non si arrende di fronte ad un subordine originale, tentando di svincolarsi da quella collocazione angusta che il fato ha confezionato associato indissolubilmente al luogo di nascita, e s’accende qui la sottile critica: a finire sotto accusa è il Vecchio Continente, solo all’apparenza fautore della libertà individuale(espressiva e di transito) e dei diritti umani, chiuso a riccio invece in difesa dei confini statali, lordato dai nazionalismi, imbolsito dall’individualismo. Un’unità europea contraffatta, poggiante le sue basi su demarcazioni non visibili ma ben più numerose di quelle presenti sulla cartina geografica, dove la soluzione di continuità è spezzata e svilita in favore di una visione particolaristica, in cui hanno ragione d’esistere perfino distinzioni regionali e identità locali. Un’Europa che non parla una lingua universale, ma comunica non capendosi o fingendo di non comprendersi- attraverso mille e più imbastardimenti dialettali.
 


Seppur Seidl ci dedichi circa lo stesso minutaggio e anzi ci permetta di seguire parallelamente il delinearsi di entrambi gli episodi grazie ad un sapiente uso del montaggio, la vicenda di Paul (Export) non sembra avere lo stesso respiro ampio né quella innata profondità, mai forzata o imposta da didascaliche scelte registiche, che le permetterebbe di mantenersi sul  livello di prima grandezza della restante narrazione.                                                                                                                                       Il ragazzo, trovandosi in un batter d’occhio senza un impiego, una ragazza e con prospettive per nulla rosee, decide di cavalcare questo turning point affidando le proprie speranze al patrigno, figura patetica e abietta, sessuomane ed immatura, che lo coinvolge in un’odissea attraverso gli angusti locali dell’est europeo con lo scopo di esportare slot-machine.

Sarà una missione persa in partenza, economicamente redditizia ma umanamente logorante: il rapporto tra i due, che ha la recondita caratteristica tipica di molti legami parentali d’esistere solo in quanto tali, mostrerà la corda dopo l’aberrante trattamento riservato ad una prostituta, mortificata dalla brutalità del più anziano.
L’umiliazione insensata della ragazza, perpetrata facendo valere biecamente le logiche della compravendita (‘perché tanto sei stata pagata’), farà saltare il tappo, con la decisione di abbandonare il patrigno a confrontarsi vis-à-vis con le personali miserie.
In Paul, malgrado gli errori e la propria inettitudine, proprio come la controparte femminile, resiste inalterata la facoltà arbitraria, la volontà di non immergersi nelle torbide acque della sopraffazione del più debole, uscendone forse meno coriaceo ma umanamente incontaminato.  

 
 
Stupisce come il caleidoscopio desolante allestito da Seidl rapisca in tal modo noi fruitori e, a scapito della lunghezza e dei ‘vuoti’ che infarciscono l’opera, si completi la visione senza avvertire cali d’attenzione e attimi di stanca: ad emergere, per sottrazione e nella loro calibrata freddezza stilistica, sono le scelte registiche.

Se ne esce turbati, col fiato corto e l’animo pesante; ci risulta però impossibile smettere di sperare in un mondo migliore- consapevoli che- solo dopo aver grattato via la patina insudiciante dalle cose e agito nei confronti dell’esperienze come speleologi in cerca di tesori, si giunge alla vera bellezza.

 

 

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